Il prodotto alimentare. Un “articolo”, molte destinazioni d’uso.
Come spiegato nel precedente articolo “Il comparto agroalimentare”, un approccio multi-metodologico (chimica, microbiologia, tecnologia dei processi agroalimentari, diritto alimentare, economia, ecc.) è assolutamente necessario quando si parla di “prodotti alimentari”. Non è tanto una questione di classificazione merceologica (Parisi 2004), quanto piuttosto di una definizione di “prodotto alimentare” che si oppone al concetto di alimento tout court.
È stato detto (cfr. intervista “Professione Chimico 016 – Il chimico in campo agroalimentare”) che il chimico agroalimentare si occupa di molte cose senza riferimento esclusivo all’ambito strettamente analitico (il laboratorio d’analisi). Una simile immagine appartiene al passato, e solo perché non vi era contezza del lavoro nascosto che i Chimici effettuavano continuamente in ambito agroalimentare. Oggi dovrebbe essere chiaro che ogni lavoro concettuale operato dal Chimico – e anche da Professionisti appartenenti a categorie differenti, sia chiaro – opera già in astratto delle modifiche sul mercato delle commodities senza che si arrivi alla creazione finale di un prodotto. Anzi, la semplice progettazione – come risultato di una decisione/selezione tra diverse opzioni come potrebbe essere la scelta di un ingrediente/additivo al posto di un altro, od addirittura la sua soppressione – finisce per escludere oppure includere nuove materie prime nel processo che porterà alla creazione di un prodotto, oppure allo sviluppo e ridefinizione dello stesso. In altre parole, l’influenza di certe decisioni operate “su carta” è già operante ben prima che un prototipo esca da una linea allo stadio di progetto pilota.
Questa semplice considerazione aiuta a configurare meglio i contorni di quel che viene definito “prodotto alimentare” e non alimento in senso stretto. Da un lato, si parla di un’associazione alimento/ imballaggio/ altri componenti materiali ed immateriali, dove la parte più interessante in assoluto – l’alimento – ne costituisce il nucleo che però ha bisogno di essere protetto e ben presentato al pubblico (Parisi 2002-2004). D’altro canto, quest’associazione sinergica di fattori corrisponde a un’immagine del prodotto alimentare solitamente ben definita (pena l’insuccesso del prodotto in termini commerciali o peggio ancora la confusione tra diversi prodotti…). In termini semplici, il prodotto alimentare è riconoscibile – dal consumatore comune, da un mediatore, o da un utilizzatore – in base ai seguenti termini o condizioni al contorno:
- Classificazione merceologica dell’alimento, cioè della parte edibile e che riveste la maggiore importanza
- Classificazione della forma sotto cui si presenta, il che introduce il problema del packaging scelto. L’imballaggio condiziona molto spesso le scelte dell’acquirente in una pluralità di modi, includendo anche l’estensione della durabilità, anche se le conseguenze della Prima Legge di Parisi della Degradazione Alimentare non sono evitabili (Anonimo 2020-2021; Parisi 2002; Srivastava 2019)
- Effetto del messaggio pubblicitario inserito (anche, se non spesso, in maniera subliminale) nel prodotto e che lo accompagna, anche in riferimento a significati sociali, etici, religiosi, e d’integrità (sostenibilità ambientale)
- I caratteri organolettici dell’alimento, non intesi in senso soggettivo ma intesi in senso puramente oggettivo, cioè in termini di parametri misurabili.
Pertanto, il prodotto alimentare ha un’immagine percepita in termini di effetto o somma degli effetti solitamente attribuiti all’alimento, e come tali potenziati (enhanced) tramite una sapiente scelta del packaging, della tecnologia di produzione, e d’altri aspetti capaci di indurre l’acquirente a modificare (o mantenere) le priorità di scelta a seconda dell’impressione di gratificazione che il prodotto (non l’alimento) conferisce.
Quanto detto sopra non deve stupire affatto: la composizione di un “articolo” alimentare capace di vincere la guerra commerciale sugli scaffali dei punti vendita se non anche sui portali del commercio elettronico sta tutta in una parola sola: progettazione (Parisi 2002-2012). Del resto, è notorio che le caratteristiche di un prodotto food o non-food devono essere prevedibili, determinabili, e ripetibili; diversamente il progettista non potrebbe costruire un prodotto con caratteristiche riproducibili in condizioni determinate. Il concetto di shelf life alimentare, limitato non solo dalla Prima Legge, ma anche dalla Seconda Legge di Parisi della Degradazione Alimentare (Parisi 2002), è lampante: se è vero che una qualsiasi operazione di processo tendente a ridurre le dimensioni di un prodotto finisce per diminuire la durabilità a meno di non usare contromisure adeguate (stoccaggio refrigerato, atmosfere modificate, ecc.), ne segue che il progettista è costretto a conoscere prima i limiti massimi di durabilità entro cui si muove, e successivamente a mettere in conto ulteriori limitazioni sempre che non si intervenga altrimenti. Il tutto indica un lavoro teorico/pratico di raccolta dati, elaborazione, e sviluppo nel quale nulla deve essere lasciato al caso. In queste condizioni, la shelf-life sarà non solo calcolabile teoricamente ma anche dimostrabile a priori e a posteriori, intendendo – in ultima analisi – che il progettista ha messo in piedi un lavoro gestibile e non basato sull’improvvisazione.
Il progetto deve tener conto della destinazione d’uso
Il discorso fatto finora punta a mettere sotto i riflettori il prodotto alimentare – e non l’alimento – cercando di analizzare le sfaccettature percepibili che ne compongono l’immagine percepita, al fine di ricondurre l’analisi ai dati di partenza che costituiscono la base teorica del progetto.
E dovrebbe essere chiaro che qualsiasi progetto affidabile deve rispondere a una domanda prioritaria: non “come”, “quando”, o “dove” fare un’operazione/prodotto/servizio o altro, ma piuttosto “perché” si opera in una maniera o in un’altra.
Una simile domanda è la base su cui operare: perché si realizza un prodotto alimentare? La risposta più banale e scontata – la mancanza di cibo laddove serve – non è soddisfacente. Piuttosto, bisogna interrogarsi sul perché un alimento definito non sia disponibile quando occorre. Le ragioni sono molteplici – cali di produzione ciclici, aumenti disordinati o parzialmente comprensibili dei prezzi, eventi non legati alla produzione alimentare come la pandemia da COVID-19 , ecc. (Barone e Parisi 2020) – ma un motivo che in qualche maniera comprende gli altri è di certo la destinazione finale d’uso. In altri termini: a chi serve il prodotto alimentare? Non basta l’alimento originale di per sé?
Nel mondo attuale, la produzione alimentare deve tener conto delle esigenze di popolazioni in aumento continuo, localizzate in aree urbane in rapido accrescimento,e anche di esigenze produttive legate alla sostenibilità. Conciliare le une e le altre può essere estremamente difficoltoso, ma è certo che la produzione di derrate alimentari in notevoli quantità, facilmente trasportabili su grandi distanze, con necessità chiare come elevate durabilità e sicurezza igienico-sanitaria, non può non tenere conto delle migliori tecnologie disponibili al momento. In altri termini, un alimento “così com’è” non è “spendibile” se non su mercati geograficamente molto ridotti. Per questo motivo la transizione da alimento a prodotto alimentare è ormai data per scontata da secoli, come uno degli elementi distintivi dell’evoluzione della civiltà umana (Barone e Pellerito 2020).
Su queste basi, appare chiaro che la domanda “perché si realizza un prodotto alimentare” ha una parziale risposta che riguarda il destinatario finale… e questo classifica/qualifica immediatamente il prodotto alimentare stesso! In altre parole, a ciascun (utilizzatore) il suo (prodotto).
In realtà, il prodotto alimentare è inteso generalmente come a disposizione del consumatore finale. Al contrario, esso può essere materia prima (MP), intermedio di lavorazione (IL), o prodotto finito (PF). Chiaramente il destino di ognuna di queste voci è differente, e il consumatore finale si vede soprattutto in rapporto ai soli PF. In tale caso, trattandosi dell’ultima “fermata” della filiera agroalimentare, va notato che i problemi tipici del consumatore finale si restringono a poche voci che includono almeno:
- Usabilità del prodotto alimentare. È facile da usare o meno? Si apre facilmente? Dopo l’apertura, sarà facile da preparare? Può essere usato così com’è?… E via discorrendo;
- Rapporto qualità (percepita) contro prezzo (richiesto);
- Scadenza del prodotto alimentare, con annessi “dubbi” sulla scadenza effettiva, dopo la quale il prodotto non è più commestibile a detta del Produttore alimentare, oppure sul Termine Minimo di Conservazione (TMC), oltre il quale il prodotto può ancora essere consumato perché non attenta alla salute del Consumatore, e questo sempre a detta del Produttore alimentare.
Un poco diversa è l’ottica dell’Operatore del Settore Alimentare (OSA) che impiega un certo prodotto alimentare come ingrediente, e quindi lavora con MP. In tali condizioni, i problemi aumentano includendo almeno le seguenti voci:
- Liceità d’uso del prodotto. Può essere usato? Se sì, vi sono limitazioni quantitative? Se sì, si può usare ovunque, o vi sono comunque delle restrizioni? Se sì, si può acquistare da chiunque? E’ forse soggetto a condizioni d’uso particolari nell’ambito di produzioni certificate, etiche, legate a particolari credi religiosi, ecc.? E via discorrendo…;
- Descrizione del prodotto (esistenza schede tecniche, condizioni d’uso dichiarate dal Produttore originale, descrizione del packaging, condizioni di stoccaggio…;
- Economicità/convenienza del prodotto (inteso MP) rispetto a MP similari o che abbiano uno o più componenti d’interesse. Si tratta dunque di valutare se dal punto di vista del prezzo sia conveniente una MP rispetto ad altre, e questo impone un calcolo o stima del valore della MP basato sul prezzo. Un esempio pratico è mostrato alla fine dell’articolo.
Va riconosciuto anche che le produzioni alimentari hanno, al loro interno, dei momenti “di stasi” in cui vengono generati degli intermedi di lavorazione (IL) che possono:
- Essere usati in seguito, nello stesso processo produttivo, oppure
- Essere usati in seguito da altri OSA.
In un caso come nell’altro, abbiamo un ingrediente o MP, con specificità che dipendono dal suo stato chimico-fisico, dalle condizioni di stoccaggio, dalla trasportabilità, dalla facilità d’uso… un IL, dunque. E dovrebbe essere evidente che un simile IL corrisponde a un MP, salvo il fatto che le condizioni di cui sopra sono mutate di molto. In un caso almeno ci si renderà conto facilmente della differenza MP/IL (anche se il destinatario d’uso è sempre OSA): il tempo (intercorrente tra la produzione dello stesso/interruzione del processo e il riutilizzo) è un fattore critico: può essere lungo o meno, e questo influisce parecchio. Peraltro, se IL è usato nello stesso processo produttivo, deve essere menzionato come MP prodotto al’interno dello stabilimento nei registri di tracciabilità, se non immediatamente usato. Ne segue che il processo produttivo, se interrotto, si estende nel tempo, forse molto al di là di quanto prevedibile inizialmente. Dal punto di vista della gestione processuale, si tratta dunque di fattori cui prestare la massima attenzione, e non si parla ancora di sicurezza alimentare… ma di semplici esercizi di tracciabilità.
La distinzione tra MP, IL, e PF è dunque alla base della progettazione alimentare.
Infine, si offre qui un esempio pratico sulla determinazione dell’economicità/convenienza di un prodotto alimentare come MP, anche se si può operare in maniere diverse (non c’è mai un’unica via…). Se A e B sono due MP con un componente d’interesse esclusivo C e con un prezzo offerti come segue (Tabella 1):
Materia Prima (MP) | Abbondanza percentuale componente d'interesse C | Prezzo offerto sul mercato per 100 parti di MP (100 %), in Euro (EUR) |
A | 38 | 2,58 |
B | 25 | 1,48 |
Tabella 1. Confronto tra due MP aventi un componente d’interesse C in diversa percentuale. Apparentemente A appare più conveniente sebbene più costoso: in effetti assicura il 38 % di C, mentre B ha solo il 25 % |
La convenienza delle MP può essere determinabile in maniera semplice (la chiameremo “anticonvenienza” o AC), supponendo che esse siano utilizzabili alla stessa maniera e che la percentuale di componenti non d’interesse non sia di alcun ostacolo (potrebbe anche solo essere acqua, in ogni caso un riempitivo o zavorra):
- anticonvenienza A (ACA): prezzo per A / abbondanza C in A (espressa come abbondanza percentuale/100) = (2.58 / 38) /100 = 6.79 EUR
- anticonvenienza B (ACB): prezzo per B / abbondanza C in B (espressa come abbondanza percentuale/100) = (1.48 / 25) /100 = 5.92 EUR
Questo vuol dire, in sintesi, che utilizzando 100 grammi di A avremo un componente C che costa circa 6.79 EUR per grammo di C, mentre usando 100 grammi di B avremo C al costo di 5.92 EUR per grammo di C. Se il risultato voluto è l’ottenimento di C “al massimo grado possibile” (resa produttiva come grammi, litri, o Kilogrammi contro EUR), al Produttore alimentare converrà sempre comprare B e non A sebbene l’abbondanza di C in A sia superiore rispetto a B (38 contro 25 %). Infatti, se in un anno si devono acquistare 100.000 Kilogrammi di MP, si avrebbe la seguente situazione (Tabella 2):
Materia Prima (MP) acquistata / anno (totale: 100.000 Kg o 100 tonnellate metriche) | Abbondanza percentuale componente dâinteresse C, in kilogrammi | Spesa globale in Euro (EUR) | Resa C (Kg/EUR) |
A | 38.000 | 258.000 | 0,147 |
B | 25.000 | 148.000 | 0,169 |
Tabella 2. Il confronto tra rese produttive rispetto ai prezzi delle MP. B è più conveniente perche offre 0.169 Kg di C per un Euro, mentre A arriva solo a 0.147. Il valore di anticonvenienza (AC) corrisponde allâinverso di tali valori, per cui A è meno conveniente (sebbene assicuri più C, giustificando in parte il prezzo alto) |
In altri termini, e a parità di spesa sul totale, si ricava più C da B (prezzo base: 1 EUR) che non da A. Si noti che l’inverso della Resa C corrisponde all’anticonvenienza economica sopra riportata (AC). Una conseguenza importante è il confronto tra i prezzi sulla base del risultato voluto: se il produttore di A vuole cambiare le cose, dovrà offrire al Cliente una Resa C più alta, e quindi il valore AC dovrà scendere perché A diventi più “appetibile”.
Data ultima modifica: 08 luglio 2021
Da: Salvatore Parisi, Carmelo Parisi, Giovanni Liberatore, e Valter Ballantini – 08 Luglio 2021
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Bibliografia
Anonimo (2020) La Prima Legge della degradazione alimenti prende il nome da un Chimico italiano. Federazione Nazionale dei Chimici e dei Fisici, Roma, 24 Novembre 2020. Disponibile https://www.chimicifisici.it/la-prima-legge-della-degradazione-alimenti-prende-il-nome-da-un-chimico-italiano/
Anonimo (2021) Parisi’s First Law of Food Degradation Vauable to Establish Adequate Protocols Concerning Food Durability. Inside Laboratory Management January/February 25, 1, page 17. AOAC International, Rockville, MD
Ballantini V (2021) Intervista “Professione Chimico 016 – Il chimico in campo agroalimentare”, 12 Giugno 2021 – https://youtu.be/aoMelU3n5KE
Barone M, Pellerito A (2020) Palermo’s Street Foods. The Authentic Arancina. In: Sicilian Street Foods and Chemistry (pp. 21-41). Springer International Publishing, Cham, Svizzera
Barone C, Parisi C (2020) The pandemic and curd production. Dairy Industries International 85, 6:28-29
Parisi S (2002) I fondamenti del calcolo della data di scadenza degli alimenti: principi ed applicazioni. Industrie Alimentari, vol. 41, n. 417, 2002, pp. 905-919
Parisi S (2004) Alterazioni in imballaggi metallici termicamente processati. Gulotta Press, Palermo, Italia. 108 pp
Parisi S (2012) Food Packaging and Fodo Alterations. Smithers Rapra Publishing, Shawsbury, UK
Srivastava PK (2019) Status Report on Bee Keeping and Honey Processing. MSME – Development Institute, Ministry of Micro, Small & Medium Enterprises, Government of India 107, Industrial Estate, Kalpi Road, Kanpur-208012. Disponibilehttp://msmedikanpur.gov.in/cmdatahien/reports/diffIndustries/Status%20Report%20on%20Bee%20keeping%20&%20Honey%20Processing%202019-2020.pdf